Biografie di personaggi famosi e storici nato il 1º agosto


Biografie di personaggi famosi e storici

Biografie di personaggi famosi nella storia e celebrità

  • Biografie di Calamity Jane
  • Biografie di Gaston Doumergue
  • Biografie di Luigi Carlo Farini
  • Biografie di Giancarlo Giannini
  • Biografie di Herman Melville
  • Biografie di Leoluca Orlando
  • Biografie di Yves Saint Laurent
  • Biografie di Adriano Sofri

BIOGRAFIE DI CALAMITY JANE

1 maggio 1852
1 agosto 1903
Leggendario personaggio del vecchio West, avventuriera e primo pistolero donna, Calamity Jane, il cui vero nome è Martha Jane Cannary-Burke, nasce il 1° maggio 1852 a Princeton, figlia di Charlotte e Robert, prima di sei figli. Nel 1865, la famiglia Cannary abbandona il Missouri per dirigersi nel Montana, a Virginia City: durante il tragitto, mamma Charlotte muore di polmonite. Arrivati a Virginia City, Robert e figli si spostano nello Utah, a Salt Lake City, dove egli muore nel 1867.
A quel punto, Martha Jane, solo quindicenne, prende in mano le redini della famiglia, e dopo aver portato i suoi fratelli e le sue sorelle nel Wyoming, a Fort Bridger, si dedica a numerosi lavori per provvedere al loro sostentamento; diventa, quindi, una lavapiatti, una cuoca, una cameriera, un'infermiera a una capo mandria, e talvolta non rinuncia a prostituirsi.
In un contesto come quello del West in cui la donna può essere solo educatrice e madre, priva di vita in società, Martha si distingue per un comportamento anti-conformista: dedita all'alcol e al gioco d'azzardo (spesso viene raffigurata come vestita da uomo, da pistolera o da cavallerizza), avventuriera sregolata, proprio a causa della sua cattiva fama non è in grado di concludere molti lavori, anche perché spesso viene licenziata. Quando si trova al seguito di carovane, per esempio, i capo mandria e i capo carovanieri non vedono di buon occhio i suoi comportamenti amorali, osteggiando il suo ricorso all'alcol.
Priva di educazione formale e di istruzione, totalmente analfabeta, Martha non rinuncia a partecipare agli scontri militari con i nativi indiani. E' durante uno di questi conflitti, a cavallo tra il 1872 e il 1873, che - secondo la leggenda - si guadagna il soprannome di Calamity Jane, nel Wyoming a Goose Creek. Nel 1876, Martha si stabilisce nelle Black Hills, in South Dakota. Qui diventa amica di Dora DuFran, per la quale lavora occasionalmente, e, durante uno dei viaggi al seguito delle carovane, ha modo di entrare in contatto con Charlie Utter e soprattutto James Butler Hickok, conosciuto anche come Wild Bill Hickok.
Il loro rapporto, tuttavia, ancora oggi è oggetto di controversie: c'è chi sostiene che tra i due ci fosse una forte passione amorosa, e chi invece ritiene che Wild Bill nutrisse, nei suoi confronti, una vivida antipatia. Egli, comunque, muore il 2 agosto del 1876 (all'epoca è sposato con Agnes Lake Thatcher), ucciso durante una partita di poker.
Calamity Jane, dopo la scomparsa dell'uomo, rivendica di essere stata sposata con lui, e che egli fosse il padre di sua figlia Jean, nata tre anni prima: non esistono, tuttavia, testimonianze e documenti che confermino la nascita della bambina.
Nel 1881 Calamity Jane acquista un ranch nel Montana, a Miles City, lungo il fiume Yellowstone; sposatasi con il texano Clinton Burke, si trasferisce a Boulder, e nel 1887 partorisce una bambina, Jane. Dopo aver lavorato, tra l'altro, per il "Wild West Show" di Buffalo Bill come narratrice di storie, Martha prende parte alla Pan-American Exposition nel 1901.
Anche negli ultimi anni della sua vita, pur non conoscendo una apprezzabile sicurezza finanziaria e dovendo fare i conti con la povertà, non rinuncia a essere generosa e aiutare il prossimo, fino a compromettere la propria incolumità. Muore, il 1° agosto del 1903, in una stanza del Calloway Hotel, a soli cinquantuno anni, depressa e alcolizzata. Il suo corpo viene sepolto accanto al cadavere di Hickok nel South Dakota, a Deadwood, nel cimitero di Mount Moriah, all'interno di una fossa comune.

BIOGRAFIE DI GASTON DOUMERGUE

"Gastounet"

1 agosto 1863
18 giugno 1937
Gaston Doumergue nasce ad Aigues Vives, nel dipartimento francese di Gard, il 1° agosto 1863, da una famiglia cristiana protestante. Ultimati gli studi giuridici lavora come magistrato coloniale in Indocina e in Algeria prima di dedicarsi al giornalismo e, soprattutto, alla politica. Eletto alla Camera nel 1893 come deputato radical-socialista, dal 1902 al 1905 è ministro delle Colonie nel governo Combes ed ancora, fino al 1910, del Commercio e dell'Industria in una prima fase, e poi della Pubblica Istruzione e delle Belle Arti.
Nel 1910 diviene senatore e nel dicembre 1913 gli viene affidata la presidenza del consiglio fino al giugno 1914. Negli anni che seguono è nuovamente alla guida dei dicasteri delle Colonie e del Commercio, nei governi di Aristide Briand, René Viviani ed Alessandro Ribot. Proprio quest'ultimo, nel marzo del 1917, lo invia in Russia perché dissuada il governo Kerensky dal definire, separatamente dalla Francia, accordi di pace con Austria e Germania, ma non riuscirà nell'intento.
Nel 1923 assurge alla presidenza del senato, ruolo propedeutico alla massima carica dello Stato. Nel maggio del 1924 il "cartello delle sinistre" ottiene una vittoria elettorale, ma le divisioni interne non consentono l'elezione a capo dello Stato del suo candidato Paul Painlevé. Si creano così le condizioni che portano all'individuazione, in luogo del Painlevé, proprio di Gaston Doumergue, ed infatti il 13 giugno 1924 è eletto presidente della repubblica francese, il dodicesimo, oltreché il primo di confessione protestante. Rimane in carica l'intero settennato, fino al 1931.
Doumergue adotta subito una politica di rigore in campo economico, cominciando col licenziare postiglioni, palafrenieri e stallieri assegnati alla presidenza. Nel fronteggiare i gravi problemi di carattere finanziario che portano alla caduta del franco egli rivela la natura liberale delle sue concezioni economiche: dapprima svaluta la moneta nazionale portandola al suo valore effettivo e poi dà un forte impulso alla crescita industriale, soprattutto nel campo dell'acciaio e dell'auto. Adotta inoltre misure in favore dei lavoratori, con il risultato che, mentre gli Stati Uniti vivono un drammatico momento con il crollo della Borsa del 1929, la Francia gode di un discreto benessere e tranquillità sociale che dureranno fino al 1932 - ben oltre, cioè, la scadenza della sua presidenza - anno in cui le ripercussioni del "venerdì nero" di New York si faranno sentire pesantemente.
In politica estera Doumergue imprime un deciso impulso al colonialismo, soprattutto con la vittoria in Marocco nella guerra del Rif.
Dopo le sollevazioni parigine del febbraio 1934 è chiamato nuovamente alla presidenza del consiglio dei ministri, in un governo conservatore di unità nazionale (in età matura Doumergue abbandona le posizioni estreme avvicinandosi a quelle moderate dei conservatori), carica che egli accetta malvolentieri e che detiene fino al successivo 8 novembre.
Gaston Doumergue, che per i suoi modi affabili e per la sua paffuta giovialità è chiamato "Gastounet", è il primo presidente scapolo, ma anche il primo a sposarsi in corso di mandato, anche se soltanto dodici giorni prima di lasciare la carica. La funzione si svolge nel palazzo dell'Eliseo. Sua moglie, Jeanne Marie Louise Gaussal, è una ricca vedova ed è, in realtà, la sua amante già da molto tempo.
Dopo l'ultima esperienza di governo si ritira nel paese natio di Aigues Vives dove tre anni dopo, il 18 giungo 1937, si spegne all'età di settantaquattro anni. Sua moglie Jeanne, quindici anni più giovane di lui, vivrà fino al 1963 dedicandosi alla pubblicazione di romanzi con lo pseudonimo di "Gilles".

BIOGRAFIE DI LUIGI CARLO FARINI

L'“ombra di Cavour”

22 ottobre 1812
1 agosto 1866
Luigi Carlo Farini nasce a Russi, nel Ravennate, Stato Pontificio, il 22 ottobre del 1812. Studente in medicina a Bologna, dove conseguirà la laurea, si dedica anche alla sua passione per la politica: è infatti fra i primissimi affiliati alla "Giovine Italia" di Mazzini.
A causa delle sue attività eversive nel 1843 viene espulso dallo Stato Pontificio e ripara in Francia. Rientra in Italia nel 1845, alla vigilia dell'avvento al soglio pontificio di Pio IX, e pubblica il famoso "Manifesto di Rimini", nel quale denuncia la mancanza di libertà nei domini della Chiesa e reclama l'avvio di una stagione di riforme. Nello stesso periodo conosce e diviene amico di Massimo D'Azeglio.
La sua ostilità nei confronti dello Stato Pontificio viene intanto a cadere proprio con l'elezione di Pio IX, di quel Papa, cioè, le cui prime parole pronunciate dalla loggia di piazza San Pietro sono: "Gran Dio, benedite l'Italia!". E' l'annuncio del suo programma politico.
Nel primo governo liberale voluto da Pio IX, nel 1848, Luigi Carlo Farini è investito della Segretaria generale del ministro degli Affari interni e, scoppiata la prima guerra d'indipendenza, va a rappresentare il governo pontificio preso il campo di Carlo Alberto. Viene poi eletto deputato e Pellegrino Rossi, ministro del Papa, gli conferisce la direzione generale della sanità.
Con la fuga a Gaeta del Papa, amareggiato, si dimette dai suoi incarichi di governo e si schiera in favore della monarchia. Trasferitosi a Torino, nel 1850 pubblica "Lo Stato Romano dal 1815 al 1850", una dissertazione storica pesantemente critica verso i democratici che viene anche tradotta in inglese da William Gladstone, uno dei più eminenti statisti dell'Ottocento.
Nel 1851 Massimo D'Azeglio, divenuto capo del governo, chiama Farini quale ministro dell'Istruzione. Successivamente si avvicina a Cavour, del quale condivide appieno idee e progetti. Il suo sostegno allo statista piemontese è tale da valergli l'appellativo di "ombra di Cavour".
Nel 1859, dopo l'armistizio di Villafranca, assume la carica di dittatore dell'"Emilia", nome che egli stesso assegna a quella terra che comprende i ducati di Parma e Modena e le ex Legazioni pontificie di Ferrara, Bologna, Ravenna e Forlì, cominciando ad adoperarsi per la loro annessione al Piemonte.
Nel 1860, nella carica di ministro dell'Interno, inaugura, insieme al primo ministro Cavour, il Regno d'Italia. Con il plebiscito nell'Italia meridionale e la conseguente annessione del Regno delle Due Sicilie (1860-1861), Farini è nominato Luogotenente generale della province meridionali.
Nel 1862, dopo le dimissioni di Rattazzi, diviene primo ministro, ma è un'esperienza breve perché i suoi problemi di salute presto lo costringono ad abbandonare.
Colpito da una grave malattia mentale, Luigi Carlo Farini muore a Quarto, il giorno 1 agosto 1866, a 54 anni.
Altre opere di Luigi Carlo Farini: "La storia d'Italia dal 1814 sino ai nostri giorni" e tre volumi di "Epistolario".

BIOGRAFIE DI GIANCARLO GIANNINI

Classe internazionale

1 agosto 1942
Giancarlo Giannini nasce a La Spezia il giorno 1 agosto 1942. Si diploma a Napoli come perito elettronico, poi studia recitazione a Roma presso l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico. Debutta in teatro a diciotto anni con "In memoria di una signora amica", di Giuseppe Patroni Griffi. Nel 1960 arriva anche il suo primo successo internazionale, grazie a "Romeo e Giulietta" di Franco Zeffirelli, rappresentato all'Old Vic di Londra.
Nel 1965 Giancarlo Giannini esordisce al cinema con "Libido e Fango sulla metropoli" e in televisione, dove il suo volto diventa noto al grande pubblico grazie alla sua interpretazione del protagonista di "David Copperfield", sceneggiato girato dal regista Anton Giulio Majano.
L'anno seguente (1966) lavora al fianco di Rita Pavone e per la prima volta con Lina Wertmuller, in "Rita la zanzara", titolo a cui seguirà "Non stuzzicate la zanzara" (1967). Con Lina Wertmuller nasce una felice e duratura collaborazione che porterà alla realizzazione di numerosi lavori di qualità. Giannini intanto viene chiamato da Ettore Scola per "Dramma della gelosia - tutti i particolari in cronaca", del 1970.
Durante gli anni '70 avviene la consacrazione: i titoli più rappresentativi sono "Mimì metallurgico ferito nell'onore" (1972), "Film d'amore e d'anarchia ovvero: stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza" (1973, per il quale vince il premio come miglior attore al Festival di Cannes), "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" (1974), "Pasqualino Settebellezze" (1975, per il quale invece è candidato all'Oscar), "La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia" (1978), "Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova - si sospettano moventi politici" (1978). Con questi film - di Lina Wertmuller - sovente in coppia con Mariangela Melato, il volto di Giancarlo Giannini diventa l'icona del maschio italiano, rude e zotico, e veicolato dall'effetto stereotipante, fa il giro del mondo acquisendo notorietà internazionale.
Le notevoli doti drammatiche di Giannini hanno modo di esprimersi anche ne "La prima notte di quiete" (1972, di Valerio Zurlinie) e in "L'innocente" (1976, di Luchino Visconti).
Durante la sua lunga e prestigiosa carriera Giannini interpreta in modo straordinario e camaleontico personaggi di ogni genere, di diversi dialetti italiani, così come in lingua inglese. Proprio durante gli anni '80 lavora a livello internazionale, scelto da registi come Rainer Werner Fassbinder ("Lili Marleen", 1981) e Francis Ford Coppola ("La vita senza Zoe", episodio di New York Stories, 1989).
Durante gli anni '90 spazia dai film di azione ("Palermo Milano solo andata", 1995 - "Terra bruciata", 1999) al cinema cosiddetto più leggero ("Cervellini fritti impanati", 1996), fino all'impegno civile ("Giovanni Falcone", 1993).
Dopo il 2000 appare più frequentemente nelle fiction per la tv come "Il Generale Dalla Chiesa" o "Il Maresciallo Rocca", ma non manca di di frequentare le grandi produzioni hollywoodiane, come "Hannibal" (2001), "Man on Fire" (2004), "Casino Royale" (2006), "Agente 007 - Quantum of Solace" (2008).
La statura interpretativa di Giancarlo Giannini eccelle anche nell'attività di doppiatore: è la voce ufficiale di Al Pacino, ma ha prestato la voce anche a Jack Nicholson in "Shining" (1980) e nel "Batman" di Tim Burton (1989), nelle vesti di Joker.

BIOGRAFIE DI HERMAN MELVILLE

Metafore di avventure vissute

1 agosto 1819
28 settembre 1891
Al tempo in cui morì il suo autore, era stato quasi del tutto dimenticato, poi il capolavoro del 1851 "Moby Dick" sarebbe stato rilanciato nel 1921 grazie a una biografia di Raymond Weaver; oggi quel romanzo è ritenuto uno dei massimi capolavori dell'Ottocento. Il suo autore è Herman Melville, scrittore, poeta e critico letterario statunitense, nato il giorno 1 agosto 1819 a New York. Amico di Nathaniel Hawthorne, "Moby Dick" come le altre opere di Melville sarebbero state ispirate dalla produzione più tarda dell'amico.
Studia a New York e matura la passione per l'avventura ascoltando i racconti del padre Allan, ricco commerciante dal carattere espansivo, che in passato molto aveva viaggiato. Nei racconti del padre erano spesso presenti figure quali gigantesche onde marine e alberi di navi che si spezzavano come fuscelli. Dopo una vita trascorsa in sostanziale tranquillità economica, nell'estate del 1830, l'attività del padre fallisce: Allan Melville manifesta in seguito una malattia psichica che lo porterà alla morte. Il fratello tenta di riprendere gli affari del padre, ma fallisce: la famiglia è composta di otto figli tra fratelli e sorelle (Herman è il terzogenito): si riduce in miseria e si trasferisce al villaggio di Lansingburgh, sul fiume Hudson.
Qui Herman lascia definitivamente la scuola per iniziare a lavorare nell'azienda di uno zio; lavora poi nel negozio del fratello maggiore e infine come maestro in una piccola scuola.
La mancanza di una prospettiva lavorativa stabile, unita al desiderio di viaggiare, spingono il futuro scrittore ad imbarcarsi come mozzo su una nave ancorata al porto di New York, in partenza per Liverpool. E' il mese di giugno del 1839: Melville attraversa l'oceano e giunge a Londra. Tornerà poi in patria con la stessa nave. Questo viaggio ispirerà il suo romanzo "Redburn: il suo primo viaggio" (Redburn: His First Voyage), pubblicato a dieci anni di distanza.
Tornato a casa, riprende la professione di insegnante. All'inizio dell'anno 1841 si arruola di nuovo come marinaio: parte dal porto di New Bedford (in Massachusetts) sulla nave baleniera Acushnet, diretto verso l'Oceano Pacifico. Il viaggio durerà un anno e mezzo. Una volta raggiunte le Isole Marchesi (nella Polinesia Francese), Melville diserta; il racconto di "Taipi" (Typee) come la sua continuazione "Omoo", saranno testimonianza di questa vicenda.
Dopo un soggiorno alle Isole della Società, Melville si dirige a Honolulu, dove resta per quattro mesi lavorando come impiegato in un ufficio. Si unisce poi all'equipaggio della fregata americana "United States", che naviga in direzione Boston, facendo scalo presso un porto peruviano nell'ottobre del 1844. Descriverà questa esperienza insieme alla nave con il nome di "Neversink" (L'inaffondabile) in "Giacchetta bianca o il mondo visto su una nave da guerra" (White Jacket: or, The World in a Man-of-War, 1850).
Il 4 agosto 1847 a Boston, Herman Melville sposa Elizabeth Shaw, evento che pone termine alle avventure marinaresche dello scrittore. La coppia si stabilisce a New York dove rimane fino all'anno 1850, quando acquistano una fattoria a Pittsfield (Massachusetts); proprio nel febbraio dello stesso anno inizia a scrivere "Moby Dick", l'opera che lo proietterà nella storia della letteratura americana e mondiale.
Durante i tredici anni passati a Pittsfield, Melville tiene conferenze presso le scuole, dedicandole principalmente alle sue avventure nei mari del sud.
Le sue opere non riusciranno a raggiungere un pubblico vasto, così Melville non avrebbe guadagnato molto dalla sua attività di scrittore. Economicamente molto doveva alla famiglia della moglie; in seguito lavorerà anche come doganiere a New York, dove si trasferirà con la moglie.
Dopo una malattia che dura diversi mesi, Herman Melville muore nella sua casa di New York, nelle prime ore della mattina del 28 settembre 1891. La sua salma viene sepolta nel Woodlawn Cemetery, nel quartiere del Bronx.

BIOGRAFIE DI LEOLUCA ORLANDO

Rinascimento Siciliano

1 agosto 1947
Pronunciare il suo nome vuole dire pronunciare il nome della città di Palermo: solo con altri suoni. Negli anni del suo mandato il primo cittadino Leoluca Orlando ha cercato di ridare credito e speranza ai cittadini palermitani operando sul terreno concreto del tessuto sociale e del territorio, combattendo l'illegalità e il degrado di alcuni quartieri, operando sul piano della solidarietà e puntando su concetti moderni come quelli dell'efficienza amministrativa e del funzionamento della macchina comunale.
Nato il giorno 1 agosto 1947 Orlando ha studiato per alcuni anni in Germania e in Inghilterra. Avvocato cassazionista e professore di diritto pubblico regionale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo, è autore di numerosi articoli e monografie scientifiche di diritto pubblico.
Ma il campo d'attività dove Leoluca Orlando si è sempre distinto è naturalmente quello politico. Consigliere giuridico del Presidente della Regione Piersanti Mattarella dal 1978 al 1980, consigliere comunale dal 1980 al 1993, è stato eletto sindaco per la prima volta il 16 luglio 1985. Durante il suo mandato si è aperta nella difficile città siciliana quella che è stata ribattezzata "La primavera di Palermo", per indicare il senso di rinnovamento profondo, morale ma anche istituzionale che ha contrassegnato il suo operato.
In seguito è fondatore e coordinatore nazionale dell'ormai scomparso "Movimento per la democrazia - la Rete", partito che si distingueva per il suo ruolo di "sponda" nella politica italiana contro la corruzione ed il malaffare; eletto deputato nel 1992 ha rinunziato al mandato parlamentare a seguito della sua rielezione a sindaco di Palermo, nella consultazione amministrativa del 21 novembre 1993, al primo turno, con 293 mila voti (75,2 per cento). E' di questo periodo la denuncia di Orlando del "Pamm", l'intreccio tra vari soggetti del malaffare (la sigla rappresenta l'acronimo dei termini "politica, affari, mafia e massoneria"), responsabile oltre che di stragi e delitti, anche di pregiudicare gravemente lo svolgimento di un processo sociale democratico in Italia, e ancora più in Sicilia, e capace anche di influire in altre regioni italiane e straniere.
Dopo queste dure battaglie sul campo Leoluca Orlando nel 1994 decide di affrontare la sfida europea. Viene eletto deputato europeo riportando 149.976 preferenze. Nel luglio del 1994 al Parlamento di Strasburgo viene chiamato a far parte della commissione per le Libertà pubbliche e gli Affari interni, e della commissione Agricoltura, pesca e sviluppo rurale. E' stato inoltre nominato presidente regionale dell'ANCI, l'associazione che si occupa dei problemi dei comuni.
Il suo cuore com'è intuibile ha sempre battuto in modo particolare per la città di Palermo. Nel 1997 si è presentato nuovamente sfidando il consenso popolare per l'ennesima volta. E la gente lo ha premiato: alle elezioni amministrative del ha incassato 207.448 preferenze.
L'anno dopo ha inaugurato la riapertura del Teatro Massimo dopo venti anni di "piccoli interventi di restauro", un eufemismo che celava in realtà l'eterno stato di precarietà, e quindi anche di inattività, di quel vero patrimonio della città che è rappresentato dal suo teatro storico.
Il 18 Dicembre del 2000 Orlando si è dimesso per presentarsi candidato alla Presidenza della Regione Sicilia. Un appuntamento mancato per l'amatissimo sindaco siciliano, il quale, nonostante i quasi un milione di voti ricevuti, non è riuscito ad entrare in Regione. E' poi Deputato all'Assemblea Regionale Siciliana per Sicilia 2010, anno in cui nascerà l'area di libero scambio nel Mediterraneo.
Nel 2006, insieme ad Antonio Di Pietro, si presenta alle elezioni con il partito "Italia dei valori", appoggiando il centrosinistra. Romano Prodi, nuovo Presidente del Consiglio, nomina Leoluca Orlando Ministro per gli Italiani nel mondo.
Componente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Leoluca Orlando ha svolto attività di consulenza per conto dell'OCSE e in favore di Paesi dell'area del Mediterraneo. Sposato, è padre di due figlie.
Nel 2012 torna a ricoprire la carica di sindaco di Palermo dopo le elezioni amministrative del mese di maggio.

BIOGRAFIE DI YVES SAINT LAURENT

L'arte di vivere

1 agosto 1936
1 giugno 2008
Un nome che è diventato un logo, l'inconfondibile suono delle tre parole che compongono il suo nome non possono che significare, in tutte le lingue, una sola cosa: moda. O meglio, Alta moda. Sì perchè Yves Saint Laurent, oltre ad essere uno dei padri della moda francese è anche l'uomo che ha fatto dell'Haute Couture il suo marchio di fabbrica, uno stile di vita che dalle sue boutique si è sparso in tutto il mondo contagiando migliaia di persone.
Nato in Algeria il giorno 1 agosto 1936 come tutti i talenti mostra una passione assai precoce per l'arte che lo porterà alla gloria. L'attrazione per i tessuti e per le passerelle è in lui fortissima e così, al posto di bighellonare o passare il tempo a tirare calci ad un pallone (con il rischio oltretutto di lordarsi i vestiti), si impratichisce con stoffe, tessuti e aghi. Dove? Nientemeno che alla Maison Dior dove, dopo il diploma all'Ecole de la Chambre Syndicale de la Couture di Parigi, sostituisce il maestro Christian Dior, morto d'infarto in un albergo di Montecatini. Una grande responsabilità, considerando che all'epoca Dior era già "Dior"; ma Yves non si fa intimorire più di tanto.
Si getta a capofitto nel lavoro e nasce così la sua prima collezione, denominata "Trapezio". Ma neanche nei suoi sogni più rosei il giovane stilista poteva sperare che fosse un tale successo, tanto che sulle copertine dei giornali specializzati si parla di lui come enfant prodige. Purtroppo qualcosa di inaspettato arriva ad interrompere l'idillio, a bloccare temporaneamente quella strada in discesa che sembrava ormai senza più ostacoli. La sua patria di origine infatti lo chiama per svolgere il servizio militare: un'interruzione molto grave dei suoi impegni che infatti significherà la fine del suo rapporto con la casa Dior (la maison lo sostituirà con Marc Bohan).
Fortunatamente Yves non si scoraggia, deciso a perseguire la sua vocazione. Torna a Parigi nel 1962 e in un batter d'occhio presenta la prima collezione con il suo nome, caratterizzata dalla scelta di linee stilizzate e molto semplici, prive di fronzoli. Tutti i presenti rimangono colpiti dalla qualità della fattura degli abiti, una particolarità a cui lo stilista francese dedicherà sempre particolare atternzione.
Ma c'è un altro elemento che solleva numerose discussioni sulla collezione Saint Laurent: i pantaloni per donna. Una scelta stilistica che lo pone in quel momento fuori da ogni schema, facendo di lui un vero e proprio rivoluzionario. Yves Saint Laurent riveste la donna, le conferisce nuova dignità e una nuova dimensione di libertà, quella libertà che proviene dal poter scegliere con sicurezza cosa indossare. Senza dimenticare i suoi meravigliosi tailleur, vicini al modello di Chanel.
Gli anni che verranno non saranno altro che gli anni della consacrazione definitiva. Ossessionato dal lavoro e tendenzialmente introverso (se non misantropo), questo genio della moda ha posto in essere una serie impressionante di operazioni innovative, molte delle quali ispirate dalla sua grande cultura.
Nel 1965, per esempio, trasforma il vinile in tessuto per impermeabili dal taglio rigoroso, ispirati a Mondrian. Nel 1966 crea abiti dall'aria pop art. La collezione per l'autunno inverno 1971-72 ha abiti in taffettà che si rifanno alle opere di Marcel Proust. I balletti russi sono lo spunto per la collezione del 1976 che il New York Times definisce "rivoluzionaria, destinata a cambiare il corso della moda." Nel 1979 disegna rifacendosi a Picasso e nel 1981 a Matisse, senza dimenticare il mondo arabo di origine, a cui lo stilista francese ha sempre guardato, lasciandosi profondamente influenzare.
Nel 1966 dà vita finalmente anche ad una linea di prêt-à-porter e, nel 1972 ad una linea di cosmetici e di profumi, anch'esse baciate da gran successo.
Nel gennaio del 2002 l'ormai anziano stilista francese ha annunciato in una commovente conferenza stampa che avrebbe lasciato l'alta moda. La gloriosa Maison dell'Avenue Marceau, dunque, ha chiuso i battenti.
Per giustificare questa decisione, Pierre Bergè, suo compagno di vita e di lavoro da gran tempo, ha spiegato che: "L'alta moda è finita. Non è un'arte che si appende come un quadro. Ma è qualcosa che ha senso se accompagna l'arte di vivere. Oggi, tempo di jeans e di nike, l'arte di vivere non esiste più".
Dopo una lunga malattia si spegne a Parigi la notte del 1 giugno 2008, all'età di 71 anni.

BIOGRAFIE DI ADRIANO SOFRI

Le sue prigioni

1 agosto 1942
Parlare di Adriano Sofri significa inevitabilmente parlare di quello che, da più parti, e in maniera assai autorevole, è stato definito come una sorta di "Caso Dreyfus" italiano. Ed equiparare il "Caso Sofri" con quello del povero ufficiale francese significa nientemeno che qualificarlo come uno scandalo che grida giustizia davanti al sommo tribunale della storia.
Inevitabile quindi ripercorrere le tappe che hanno determinato questa vera e propria "stortura" giuridico-istituzionale.
Adriano Sofri, nato il primo agosto del 1942, negli anni settanta è stato il massimo esponente del movimento extraparlamentare di sinistra "Lotta Continua", ma la genesi della sua carcerazione è però da far risalire all'episodio del celebre omicidio Calabresi, generatosi nel clima acceso degli anni settanta.
Più precisamente, il motore di tutto fu la bomba che scoppiò il 12 dicembre del 1969 alla Banca Nazionale dell'Agricoltura in P.zza Fontana, nel pieno centro di Milano. Nell'attentato morirono sedici persone. Polizia, carabinieri e governo accusarono gli "anarchici" del delitto. Dopo varie indagini, venne convocato in questura per un colloquio un semplice ferroviere di nome Giuseppe Pinelli, esponente dell'anarchia milanese. Era il presunto colpevole. Purtroppo però, una notte di tre giorni dopo, durante uno dei tanti interrogatori a cui era stato sottoposto, Pinelli morì sfracellato nel cortile della questura. Da quel momento, ebbe luogo la tragica pantomima che cercò di stabilire le cause e le responsabilità della morte. Il questore interpretò il gesto, di fronte alla stampa, come un suicidio, causato dal senso di colpevolezza di Pinelli e dal suo sentirsi ormai alle corde. Gli anarchici e la sinistra, invece, accusarono appunto il commissario Calabresi di aver "suicidato" il povero Pinelli.
Per quanto riguarda la strage, in seguito, la questura designò come colpevole il ballerino anarchico Pietro Valpreda, poi scagionato dopo un estenuante processo durato anni (oggi invece si sa che un ruolo decisivo è da attribuire a gruppi fascisti).
Ad ogni buon conto, tornando a Pinelli, Lotta Continua scatenò una violenta campagna di propaganda contro Calabresi. Sofri stesso sul suo giornale cercava in ogni modo di costringere il commissario alla querela, unico strumento, secondo il leader di Lotta Continua, per aprire un'inchiesta sulla morte dell'anarchico.
Calabresi querelò effettivamente Lotta Continua e, nel 1971, cominciò il tanto atteso processo. Poliziotti e carabinieri furono chiamati a testimoniare. Ma proprio mentre il processo volgeva al termine, al giudice istruttore fu tolta la causa poiché l'avvocato di Calabresi sostenne di aver sentito il giudice dichiarare di essere convinto della colpevolezza del commissario.
Date queste premesse, dunque, era impossibile andate avanti e il processo si sgonfiò appunto su se stesso come un pallone senz'aria.
La conseguenza fu che la mattina del 17 maggio 1972, il commissario Calabresi venne trucidato per strada, sempre a Milano. Lotta Continua diventa immediatamente la sospettata numero uno. Nel 1975 venne fatto un nuovo processo che si concluse con la condanna di LC per aver diffamato il commissario Calabresi. La sentenza sosteneva che i funzionari di polizia avevano effettivamente mentito per avallare la tesi di Calabresi, ma che Pinelli era comunque caduto dalla finestra in seguito ad un "malore attivo", termine che i critici più accesi della sentenza hanno sempre sostenuto essere vago e non ben definito.
Il primo arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani (gli altri due esponenti di punta di Lotta Continua accusati di aver preso parte all'omicidio), è avvenuto nel 1988, a sedici anni dai fatti, in seguito alle confessioni esposte alla Procura dal "pentito" Salvatore Marino, anch'egli aderente negli anni "caldi" all'organizzazione Lotta Continua. Marino sostiene di esser stato lui a guidare la macchina servita per l'attentato. L'esecutore materiale invece, sempre secondo la ricostruzione di Marino, priva di qualunque contraddittorio diretto, di altre testimonianze, sarebbe Bompressi. Le responsabilità di Pietrostefani e di Sofri sarebbe invece di ordine "morale" dato che, essendo i leader carismatici del movimento e quelli che dettavano gli ordini, sarebbero stati i mandatari.
L'interpretazione di Sofri come "mandatario" è sottoscritta pure da quelli che, in questi anni, hanno negato il coinvolgimento diretto del leader (ossia di essere il mandatario cosciente), a cui tuttavia imputano una responsabilità morale in qualità di "cattivo maestro". Una figura insomma che, almeno stando alla sua personalità del tempo, avrebbe traviato le coscienze e influenzato i suoi adepti con teorie sbagliate.
Marino, dunque, si dichiara anch'egli colpevole e ha denunciato i suoi presunti complici dopo settimane di incontri notturni con i carabinieri, mai verbalizzati.
Dopo un'infinita sequela di processi e di dibattimenti, che ha sempre visto perdente la linea difensiva (il che ha dello sconcertante, tenuto conto che la stessa Cassazione, nella sua massima espressione ossia le Sezioni Riunite, aveva ritenuto del tutto inattendibile la denuncia di Marino e aveva pienamente assolto gli imputati), Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi si sono consegnati spontaneamente al carcere di Pisa. La Cassazione ha infatti emesso infine nei loro confronti una condanna a 22 anni di detenzione.
A conti fatti, i protagonisti della vicenda, colpevoli o innocenti che siano, scontano la loro pena a oltre trent'anni dal fatto.
Bisogna poi sottolineare che il verdetto è però basato sulle parole di un unico "pentito". Il vasto movimento di opinione che si è creato a favore di Sofri, poi, sostiene che le parole di Marino siano largamente smentite dai fatti e prive di qualsiasi riscontro specifico.
In occasione della pubblicazione di un libro di Sofri "Altri Hotel", e riprendendo il tema della doverosa Grazia che andrebbe doverosamente concessa a Sofri (in considerazione del tempo trascorso ma anche di quello che Sofri ha dimostrato di essere in questi anni, ossia un intellettuale di grandissimo spessore, senza contare il suo interessamento diretto in occasione della guerra Yugoslava), ma che Sofri stesso è ben lontano dal chiedere, Giuliano Ferrara ha scritto su Panorama parole che ci permettiamo di riportare quasi integralmente: "[...] Che ancora non si riesca a tirare fuori di galera uno così, uno che non muove un dito per sé nel senso della banale convenienza, uno che si rispetta ma preferisce combattere a suo modo l'annientamento della propria esistenza piuttosto che concedere un centimetro del proprio senso dell'integrità, è davvero doloroso. Doloroso in senso civile, e molto frustrante.
È ovvio che i verdetti penali definitivi non si discutono più se non in sede storica. È ovvio che nessuno può pretendere di avere la libertà perché è tanto una brava persona o perché ha tanti amici in Italia e nel mondo. È ovvio che questo non è l'unico caso di una giustizia che si realizza nell'ingiustizia, e che dovrebbe essere costituzionalmente completata da un provvedimento di grazia. Queste tautologie sono piccole perle di una casistica da minorati morali o semplici pettegolezzi. Il problema non è di Adriano Sofri, che non pretende niente come questo suo libro dimostra in modo indiretto, ma perfetto. Il prigioniero si taglia le unghie, gioca al calcio, legge, scrive, guarda la televisione, e il fatto che viva la più pubblica delle reclusioni nel perfetto rispetto dei regolamenti penitenziari, che la sua parola abbia uno spazio non invadente e un peso non schiacciante diffonde intorno a lui, per le vie misteriose dell'incomprensione umana, dell'angoscia di sé e dell'invidia, perfino un'aura di privilegio. Il problema è nostro, è della comunità di coloro che stanno fuori e non sanno che cosa fare del loro potere di grazia, non di quello che sta dentro e non ha nemmeno il tempo di pensare, scrivere, comunicare come la vede uno la cui finestra affaccia da cinque anni e mezzo su un muro di cemento.
Che vicenda strana, moralmente ambigua, quella della mancata clemenza di Stato nel caso Sofri. Lo Stato ha il privilegio di colmare il diritto con la grazia, ma non lo esercita perché il prigioniero nel carcere di Pisa ha la forza di agire da uomo libero, perché la vulgata sociale vuole che un cittadino ferito da una condanna che proclama ingiusta, oltraggiato ma non umiliato né avvilito, non si arroghi il privilegio scandaloso di una popolosa e produttiva solitudine.
Se Sofri cedesse terreno e potere in qualunque forma, s'industrierebbero in tanti tra coloro che hanno la responsabilità di decidere per il meglio. Se tiene duro senza albagia, nello stile di queste pagine strepitose, fenomeno anche stilisticamente unico nella storia della immensa letteratura carceraria europea, tutto resta fermo a mezz'aria, e non si fa un passo che non sia indietro. Quello che non la chiede si è già dato tutta la grazia che può.
Quelli che dovrebbero dargliela, la grazia, non sanno ancora dove andare a cercarla. Presidente Ciampi, presidente Berlusconi, ministro guardasigilli: fino a quando abuserete della vostra distrazione?".
Verso la fine del mese di novembre 2005 Adriano Sofri è stato ricoverato in ospedale: sarebbe stato colpito dalla sindrome di Mallory-Weiss, che provoca gravi disturbi all'esofago. Nell'occasione è stata concessa la sospensione della pena per motivi di salute. Dopo di allora è rimasto agli arresti domiciliari.
La sua pena decorre in data 16 gennaio 2012.
Bibliografia essenziale:
Adriano Sofri, "Memoria", Sellerio
Adriano Sofri, "Il futuro anteriore", Stampa Alternativa
Adriano Sofri, "Le prigioni degli altri", Sellerio
Adriano Sofri, "Altri Hotel", Mondadori
Piergiorgio Bellocchio, "Chi perde ha sempre torto", in "Diario" n.9, febbraio 1991
Michele Feo, "Chi ha paura di Adriano Sofri?", in "Il Ponte" agosto-settembre 1992
Michele Feo, "Dalle patrie prigioni", in "Il Ponte" agosto-settembre 1993
Carlo Ginzburg, "Il giudice e lo storico", Einaudi
Mattia Feltri, "Il prigioniero: breve storia di Adriano Sofri", Rizzoli.


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